Riorganizzare la società su basi diverse da quella economica

Riorganizzare la società su basi diverse da quella economica


Di Mario Antonio Morello – 17/04/2024

In questo nuovo lavoro di Latouche (Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto n.d.r.) c’è il tentativo di dare maggiore ed immediata concretezza all’idea di società della decrescita, tenendo assieme, nel modo più coerente e realistico possibile, obiettivi di prospettiva futura, di non facile e immediata realizzazione, con un vero e proprio programma di transizione. Programma di passaggio caratterizzato da una serie di scelte all’interno delle compatibilità del sistema capitalistico.

Come si legge nel titolo, in un’ottica di decrescita, Il libro analizza una rivisitazione lavoro, delineando due prospettive di transizione ed una finale. Fermo restando, come si afferma nel libro a pag. 68, “l’abolizione del lavoro non significa la fine di ogni attività finalizzata al benessere e alla sussistenza, ma significa, innanzi tutto, la fine della servitù” e alla crescita fine a se stessa.

Rimanendo nell’attuale contesto socioeconomico e con le attuali modalità di organizzare, programmare, dirigere, controllore e remunerare la produzione di beni e servizi, in attesa di un loro superamento, come viene affermato nel titolo del libro, è facilmente comprensibile e condivisibile che si debba cercare di lavorare meno, di ridistribuire in maniera più equa e più confacente alle propensioni e alle aspettative dei lavoratori, i carichi e i contenuti del lavoro. Quindi, fatto salvo il non facile superamento, dovuto ai vincoli derivanti da un’economia globalizzata, produttivista, fortemente competitiva e consumistica, queste due prospettive non necessitano di molta discussione, tenendo conto delle ricadute positive che ne deriderebbero sull’ambiente, sui livelli occupazionali, sulla qualità della vita, salute e benessere dei lavoratori.

C’è da dire però che, nel sistema economico di mercato e con gli attuali modi di concepire e governare il lavoro, principale, significativo e qualificante aspetto della decrescita, i problemi potrebbero nascere, quando si passa alla prospettiva del “non lavorare affatto”, nel senso precisato nel libro. Ovvero, tornare a pensare al lavoro come attività autonoma e integrata con le altre dimensioni del vivere umano come la cura, il gioco, la contemplazione, la creatività, la conoscenza, la generatività, quelle, a detta del buon prof, Domenico De Masi, che la Agnes Heller chiamava i bisogni qualitativi (o radicali), in contrapposizione ai bisogni quantitativi (o alienati), che consistono nel desiderio di ricchezza, potere e possesso di beni. Infatti, in una chiara prospettiva di decrescita, la fuoriuscita dalla società del lavoro salariato, attività caratterizzata da forti connotati di servilismo, alienazione e di novella schiavitù a tempo parziale, presuppone che il lavoro non sia più la sola attività che produce valore misurabile in termini di incremento del PIL, ma che dipenda dalla sua qualità intrinseca, ontologica. Quindi, uscire dalla società lavorista, in ultima analisi, vuol dire riorganizzare rapporti di produzione e i legami sociali su presupposti non esclusivamente economici. Per comprendere le attuali contraddizioni sulla valutazione dell’attività umana basta riflettere su come viene valutato l’operato socialmente utile di chi denuncia e combatte gli impatti ambientale delle esternalità negative dell’industria, rispetto alle industrie stesse che le producono.

Per assicurare a tutti un modo di lavorare e produrre soddisfacente, programmi di attività su cui poter costruire alleanze e allargare il consenso degli ultimi, di chi è disoccupato, l’autore auspica la rilocalizzazione su scenari locali il modo di produrre, proponendo filiere e carte monete locali, autoproduzione e recupero dell’autosufficienza di piccole comunità, reti di economie solidali di tutte le cose unitamente al reddito minimo, svincolato da una prestazione lavorativa. In tutto ciò però, rimangono carenti proposte su come progettare, finanziare, realizzare, coordinare e dirigere la produzione di artefatti e servizi complessi di fondamentale e indispensabile utilità collettiva, quali ad esempio le opere infrastrutturali, il sistema previdenziale e assistenziale.

Come afferma l’autore, “per quanto concreta possa essere, cioè costruita su dati reali e prospettive verosimili, un’utopia non si realizza con un colpo di bacchetta magica, né viene alla luce come previsto”, anche se, viene spontaneo dire, il sistema sta crollando in virtù del suo stesso caotico, predatorio e selvaggio sviluppo e non perché sia stato danneggiato dai movimenti di protesta.

La decrescita, quindi, deve riorganizzare la società su basi diverse da quelle economiche e per dirla con Gorz, come viene riportato nel libro, “si tratta della necessità di immaginare un’uscita dalla società del lavoro verso una società in cui le attività senza fine economico, pubbliche e private, sociali e personali, saranno prevalenti. […] Non si tratta di sopprimere l’economia, di abolire l’industria, l’autonomia delle imprese, il capitale. Si tratta soltanto di rimettere al suo posto, che è un posto subalterno, la razionalità economica, quale si esprime in forma pura nelle esigenze autonome del capitale; di mettere fine al dominio dell’economia sulla politica. Si tratta, in altri termini, di realizzare l’estinzione del capitalismo, senza sopprimere l’autonomia e la logica del capitale, che hanno una loro sfera di validità incontestabile, anche se ristretta”.  Dunque, si auspica che Il risveglio delle coscienze, non possa venire solamente dopo la catastrofe e la decimazione del genere umano, ma sulla base di pratiche sociali, di contrapposizione di esperienze, di prefigurazioni di pratiche.

il lavoro salariato in quanto attività antropocentrica per eccellenza capace di trasformare la natura per i fini economici e generalmente attività per realizzare cose che non danno senso alla vita e non rispondono ai veri e profondi bisogni, viene messo assieme ad aspetti sociali ed ecologici, collocando la decrescita in progetto politico di lunga prospettiva di “ecosocialismo”, come sostiene l’autore. C’è da dire però, che nel testo si trascura l’approfondimento della dimensione del lavoro come bisogno di stima, di autorealizzazione, di “Maslovellaina” memoria, e fonte di integrazione sociale. Manca una visione su tutta una serie di aspetti legati alla crescita su “basi sicure” dei bambini, come ci hanno insegnato Johnn Bowlby e Mary Ainsworth, che a mio avviso a stanno fondamento dell’accoglimento della decrescita da parte delle generazioni future. Infatti, come si afferma nel libro “è difficile far capire che il lavoro, così come l’economia, sono invenzioni della modernità.  Se queste realtà a un certo punto sono comparse, allo stesso modo possono scomparire. E comunque, l’accettazione di questa eventualità si scontra con una forte resistenza. Si tratta probabilmente della ben nota angoscia della rottura, del salto nel buio. Una volta si diceva che il proletario ha da perdere soltanto le sue catene, ma per l’appunto, in un universo alienato, le catene sono ciò che tiene legati alla vita. La storia dimostra che gli schiavi non ci rinunciano facilmente”.

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