Riflessioni per una società sostenibile a trazione umana

Riflessioni per una società sostenibile a trazione umana


Di Agostino Marottoli – 18/04/2024

Oggigiorno, nel momento in cui l’attenzione del mondo dovrebbe concentrarsi sempre più sulla sostenibilità e sulla resilienza delle società, il dogma del lavoro, così come inteso dall’inizio della modernità e abusato ideologicamente nella costruzione della normativa sociale, viene sfidato da idee emergenti che, a prima vista, sembrano mettere in crisi il concetto del motore primario della vita umana. La necessità di “lavorare meno”, “lavorare diversamente” e addirittura “non lavorare affatto”, proposti recentemente da Serge Latouche in un libro che contiene nel titolo proprio questo paradigma, conducono in un territorio di riflessione denso e provocatorio.

Il sociologo francese, massimo esponente della teoria della decrescita felice, esprime da questa prospettiva non solo un desiderio di riduzione dei consumi, ma anche una vera e propria filosofia tesa ad una radicale trasformazione della concezione di vivere, specie per quanto riguarda lo stile di vita occidentale spesso definita riflesso di un’opulenza incontrollata. Latouche parte quindi dalla rivitalizzazione del locale, riprendendo il controllo sulle risorse e sulle comunità quale contrasto alla globalizzazione alienizzante e asse centrale dell’esistenza umana.

Un buon avvio al localismo potrebbe essere rappresentato dall’autoproduzione energetica. Essa, rappresentando un enorme potenziale per ridurre la dipendenza da fonti non rinnovabili e centralizzate, può assumere un ruolo chiave nella rilocalizzazione delle risorse e l’abbandono graduale dei combustibili fossili e nucleari. Le energie solari ed eoliche, adattabili alle specificità locali, anche grazie all’evoluzione tecnologica nel settore, possono alimentare in modo agevole intere comunità conferendo loro una maggiore autonomia e resilienza.

È proprio quest’ultimo concetto il perno intorno a cui ruotano le discussioni sul futuro dei nostri centri urbani e delle nostre comunità residenti. Questa resilienza si intende fondata sulla “piccola scala” e sull’idea della plurifunzionalità: recuperare la pollicultura, l’artigianato locale e le fonti di energia rinnovabile, come suggerisce Latouche, sono solo alcuni degli elementi in grado di rafforzare la capacità di resistere e di rimbalzare dalle crisi.

Assieme alla prospettiva di una resilienza diffusa, c’è la necessità di procedere a una disindustrializzazione capace di rinunciare all’iper-produzione riconsiderando il “come” e il “cosa” viene prodotto. Contrariamente a quanto affermano i sostenitori dell’economia consumistica, la trasformazione delle attività produttive, la riconversione delle attività nocive quali armamenti e pubblicità nonché la promozione di una produzione più locale e sostenibile possono creare nuovi spazi di lavoro e innovazione

Nel concetto di decrescita il “tempo” emerge come un pilastro fondamentale di un rinnovato equilibrio sociale. È di certo la risorsa più preziosa e, al tempo stesso, più trascurata nell’incessante ritmo del lavoro moderno. Lavorare meno non significa solo ridurre le ore di lavoro, ma anche ridisegnare e creare valore dal modo in cui trascorriamo il nostro tempo libero, svolgendo attività che arricchiscono la vita culturale, sociale e personale anche grazie al ritrovamento di relazioni interpersonali e intergenerazionali significative.

Facendo bene attenzione alla proposta di abolizione del lavoro, questa non significa la fine delle attività umane bensì una loro riconsiderazione e, sostanzialmente, ricollocazione al di fuori della servitù e della dipendenza finanziaria a favore della propria autonomia nel mettere al centro della propria esistenza ciò che è essenziale per una vita significativa. Il lavoro non sparisce ma diventa funzionale ad una vita che merita essere vissuta nella sua espressione più ricca e lontana dai valori tossici della modernità.

In questo contesto l’educazione diventa un veicolo fondamentale per la transizione ad una società post-crescita lontana dall’idea dello sviluppo tecnologico illimitato e taumaturgico. Non si tratta più di insegnare solo competenze tecniche e specialistiche che i filosofi contemporanei considerano causa della “nuova ignoranza”, ma di coltivare un pensiero attivo e integrato alla vita comunitaria, culturale ed economica.

Latouche quindi, sulle note del “lavorare meno”, “lavorare diversamente” e “non lavorare affatto”, spinge ad interrogarsi sul modello di società del futuro, a partire dalle fondamenta e invita a rimodulare il concetto di lavoro avvicinandolo a una dimensione di attività più creativa e solidale, in altre parole: “umana”.

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